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IMPRENDITORE AGRICOLO ED IMPRENDITORE ITTICO IN VENETO
L’acquacoltura trova una prima definizione nella L. 102/1992, come l’insieme delle pratiche volte alla produzione di proteine animali in ambiente acquatico (acque dolci, salmastre o marine[1]) mediante il controllo, parziale o totale, diretto o indiretto, del ciclo di sviluppo degli organismi acquatici (art. 1 L. 102/1992). L’acquacoltura, esercitabile in forma singola od associata, viene, quindi, considerata, a tutti gli effetti, come attività imprenditoriale agricola, ai sensi dell’art. 2135 c.c., qualora i redditi che ne derivino siano prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto (art. 2 L. 102/1992). Successivamente, con il D.Lgs. 18.05.2001 n. 228, che ha profondamente modificato il testo dell’art. 2135 c.c., l’acquacoltore viene fatto rientrare a pieno titolo nella figura dell’imprenditore agricolo, ridefinito come colui che esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse, intendendosi per coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali le attività dirette alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico o di una fase necessaria di esso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Con il D.Lgs. 99/2004, viene, infine, introdotto lo IAP (imprenditore agricolo professionale), ovvero colui che, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell’art. 5 del Regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c., direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro. L’accertamento del possesso di detti requisiti è riservato alle Regioni, fatta salva la facoltà dell’INPS di svolgere, ai fini previdenziali, le verifiche necessarie ai sensi del D.P.R. 476/2001.
Ai sensi, poi, dell’art. 1, co.3, D.Lgs. 99/2004, anche le società di persone, cooperative e di capitali, anche a scopo consortile, sono considerate imprenditori agricoli professionali qualora lo statuto preveda quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c. e siano in possesso dei seguenti requisiti:
a) nel caso di società di persone qualora almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale. Per le società in accomandita la qualifica si riferisce ai soci accomandatari;
b) nel caso di società cooperative, ivi comprese quelle di conduzione di aziende agricole, qualora almeno un quinto dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale;
c) nel caso di società di capitali, quando almeno un amministratore sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale.

La pesca trova, invece, la propria regolamentazione nel cod. nav. e, ai soli fini previdenziali, nella L. 250/1958, nonché, limitatamente alla Regione Veneto, nella L. Regionale Veneto n. 19/1998. In particolare, la Legge Regionale Veneto n. 19/1998 individua tra i tipi di pesca sia la pesca professionale che l’acquacoltura e la piscicoltura (art. 2). La pesca professionale è attività economica, esercitata in forma esclusiva o prevalente, consistente nella cattura di pesci, molluschi, crostacei, anellidi e alghe al fine della loro commercializzazione (art. 24 L.R.Veneto 19/1998); l’esercizio della pesca professionale è subordinato al possesso della licenza di pesca di categoria A ed è riservato ai pescatori iscritti negli elenchi di cui alla Legge 250/1958, che esercitano la pesca quale esclusiva o prevalente attività lavorativa, con tutti gli attrezzi consentiti ed indicati nei regolamenti provinciali (art. 9, co. 1, e 25 L.R.Veneto 19/1998). L’attività di acquicoltura consiste, invece, nell’allevamento di varie specie acquatiche fino all’età adulta o per un periodo limitato del ciclo biologico, con finalità alimentari, ornamentali o di ripopolamento (art. 20 L.R.Veneto 19/1998); gli addetti agli impianti di acquicoltura, durante l’esercizio della loro attività e nell’ambito degli stessi impianti, non sono tenuti all’obbligo della licenza di pesca (art. 9, co.7 lett. a, L.R.Veneto 19/1998). Successivamente alla L. Regionale Veneto n. 19/1998, nonché contestualmente alla modifica dell’art. 2135 c.c. ad opera del D.Lgs. 228/2001, con il D.Lgs. 18.05.2001 n. 226, viene introdotta la figura dell’imprenditore ittico. L’imprenditore ittico è, quindi, colui che esercita, in forma singola o associata o societaria, l’attività di pesca professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci e le attività connesse di cui all’art. 3 (art. 2, co. 1 D.Lgs. 226/2001), nonché le cooperative di imprenditori ittici ed i loro consorzi quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci ovvero forniscono prevalentemente ai medesimi beni e servizi diretti allo svolgimento delle attività di cui al co.1 (art. 2, co. 2 D.Lgs. 226/2001), nonché gli esercenti attività commerciali di prodotti ittici derivanti prevalentemente dal diretto esercizio delle attività di cui al co. 1 (art. 2, co. 3 D.Lgs. 226/2001). Il co. 5, dell’art. 2 D.Lgs. 226/2001, come modificato dal D.Lgs. 100/2005, stabilisce, infine, che “Fatte salve le più favorevoli disposizioni di legge, l’imprenditore ittico è equiparato all’imprenditore agricolo e le imprese di acquicoltura sono equiparate all’imprenditore ittico”. Atteso lo stato attuale della normativa statale e regionale in materia di acquicoltura e pesca, si impongono tre ordini di considerazioni. In primo luogo, va rilevato, che la Circolare INPS n. 34/2002, nel commentare il D.Lgs. 226/2001, specificati i concetti di ciclo biologico, uso del fondo ed imprenditore agricolo, per la definizione di acquicoltura continua a riportarsi interamente alla L. 102/1992.
Anche la successiva Circolare INPS n. 186/2003, recependo la definizione di imprenditore ittico di cui all’art. 2 D.Lgs. 226/2001, ritiene che la norma non introduca affatto una nuova figura imprenditoriale, ma si limiti a specificare una categoria economica cui ricondurre, senza effetti di particolare natura, tutti i soggetti che utilizzano ecosistemi acquatici. I D.Lgs. 226 e 228 del 2001[2], pertanto, secondo l’INPS, non innovano, anzi confermano la netta distinzione tra pesca ed agricoltura, tra pescatore – imprenditore ittico ed acquicoltore – imprenditore agricolo.
Secondo alcuni autori[3], l’unico senso che si può dare all’inclusione dell’imprenditore ittico nell’art. 2135 c.c. sarebbe quello di escludere anche quest’ultimo dalle procedure concorsuali. In secondo luogo, da una attenta lettura della normativa sopra richiamata, non può che rilevarsi un’innegabile discrasia tra i limiti all’attività di pesca contenuti nella L. Regionale Veneto n. 19/1998 e l’attuale evoluzione della normativa statale e comunitaria, discrasia che, per quanto possibile e con le necessarie cautele, necessita di adeguamento. Si è detto che l’esercizio della pesca professionale è subordinato, dalla L.R.Veneto 19/1998, al possesso della licenza di pesca di categoria A ed è riservato ai pescatori iscritti negli elenchi di cui alla Legge 250/1958 (art. 9, co. 1, e 25 L.R.Veneto 19/1998). Ai sensi, tuttavia, della Legge 250/1958, possono iscriversi nei detti elenchi solo coloro che esercitano la pesca quale esclusiva o prevalente attività lavorativa, sia per proprio conto, sia associati in cooperative o compagnie, con esclusione, peraltro, di ogni altra forma associativa o societaria. Ebbene, il D.Lgs. 18.05.2001 n. 226 definisce, invece, imprenditore ittico colui che esercita, in forma singola o associata o societaria, l’attività di pesca professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci e le attività connesse di cui all’art. 3, nonché le cooperative di imprenditori ittici ed i loro consorzi quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci ovvero forniscono prevalentemente ai medesimi beni e servizi diretti allo svolgimento delle attività di cui al co.1, nonché gli esercenti attività commerciali di prodotti ittici derivanti prevalentemente dal diretto esercizio delle attività di cui al co. 1 (art. 2, co. 1, 2, 3, D.Lgs. 226/2001).
E’ di tutta evidenza, quindi, come l’esercizio della pesca professionale in forma societaria, ai sensi del D.Lgs. 226/2001, sia attualmente ostacolata dall’impossibilità di ottenere il rilascio della licenza di pesca di categoria A, essendo quest’ultima riservata ai soli pescatori iscritti negli elenchi di cui alla Legge 250/1958, ovvero solo a coloro che esercitano la pesca quale esclusiva o prevalente attività lavorativa, per proprio conto o associati in cooperative. In terzo luogo, con particolare riferimento al problema della compatibilità o meno della licenza di pesca professionale di tipo A con l’esercizio dell’attività di acquicoltura, si è detto che l’acquacoltura è attualmente considerata, a tutti gli effetti, come attività imprenditoriale agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c.. Conseguentemente, chi dedica alle attività agricole, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro e che possa quindi qualificarsi IAP (imprenditore agricolo professionale), ai sensi del D.Lgs. 99/2004, ha l’obbligo di iscriversi alla previdenza agricola. L’obbligo di iscrizione alla previdenza agricola, come conseguenza dell’esercizio prevalente dell’attività agricola di acquicoltura, esclude, quindi, l’esercizio prevalente della pesca professionale, impedendo, tuttavia, anche l’iscrizione negli elenchi di cui alla Legge 250/1958 e, dunque, il rilascio della licenza di pesca di categoria A. In conclusione, attualmente, la compatibilità della licenza di pesca professionale di tipo A con l’esercizio dell’attività di acquicoltura è ravvisabile solo nel caso del soggetto che esercita la pesca professionale in modo prevalente, è iscritto negli elenchi di cui alla Legge 250/1958 ed esercita, in via residuale non prevalente, anche l’attività di acquicoltura, e senza, peraltro, che possa verificarsi il caso opposto. Anche sotto questo aspetto, sarebbe, dunque, auspicabile una modifica della L.R.Veneto 19/1998, quantomeno per consentire a coloro che svolgono attività di acquicoltura, in modo prevalente, di poter beneficiare anche del rilascio della licenza di pesca di tipo A, pena un’innegabile discriminazione tra categorie economiche, in contrasto, altresì, con l’equiparazione voluta dallo stesso Legislatore tra imprenditore ittico e imprese di acquicoltura (D.Lgs. 100/2005).
Attesa, quindi, la necessità di un intervento a livello regionale e locale, non resta che svolgere alcune brevi considerazioni sulla possibile ripartizione delle competenze. Il vecchio testo dell’art. 117 Cost., prima della riforma intervenuta ad opera della L. Cost. 18.10.2001 n. 3, attribuiva espressamente alle Regioni potestà legislativa in materia di pesca nelle acque interne. Attualmente, invece, posto che il nuovo art. 117 Cost. non menziona la pesca né tra le materie di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, co. 2 Cost.), né tra quelle di competenza concorrente delle Regioni (art. 117, co. 3 Cost.), e considerati i recenti incisivi interventi statali in tema di acquicoltura e imprenditoria ittica, v’è da chiedersi quali siano realmente, ad oggi, i limiti della competenza legislativa regionale, eventualmente residuale (art. 117, co. 4 Cost.), nonché i limiti della potestà regolamentare delle province.

[1] Art. 2 L. 102/1992. L’estensione dell’esercizio dell’acquacoltura anche alle acque marine risale alla L. 122/2001, che ha modificato l’art. 2 L. 102/1992.
[2] Si veda la Legge delega n. 57/2001.
[3] Si veda, in particolare, Vincenzo Bonocore, “il “nuovo” imprenditore agricolo, l’imprenditore ittico e l’eterogenesi dei fini”, tratto da www.iuritalia.it – A. Giuffre’ Editore – Juris data on line – Note e Dottrina.

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